È parte del nostro rapporto con il territorio e il suo utilizzo: a fasi di occupazione e sfruttamento di un’area seguono fasi di abbandono, e ciò che prima aveva una funzione chiara smette di averla.
Non più parte di un progetto, spazi più o meno estesi vengono lasciati a sé stessi e poiché non sono più di interesse l’uomo rinuncia, almeno per un poco, al loro controllo.

Campi un tempo coltivati, giardini di case ormai disabitate, cave dismesse, cantieri, luoghi che prima erano qualcosa, che servivano e adesso…
Adesso cosa sono? E nel tempo cosa possono diventare?
A questi luoghi incerti, spazi di incolto e residui, vorremmo dedicare una riflessione e come ci piace fare, libera dai pregiudizi.
Il paesaggista Gilles Clément ha ideato, nel 2004, il termine “Terzo paesaggio” per indicare i luoghi abbandonati dall’ uomo: “Tra questi frammenti di paesaggio, nessuna somiglianza di forma. Un solo punto in comune: tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità. Ovunque, altrove, questa è scacciata.”[1]
Luoghi precari, in divenire, perché in essi si esprime libera la creatività della natura. E luoghi di valore perché fondamentali per garantire la biodiversità.
All’inizio arriveranno le piante pioniere, spunteranno cespugli e piccoli alberi, specie autoctone accanto a quelle fuggite dai giardini. Ogni fase prelude e prepara la successiva. Verranno gli animali. Ci saranno stagioni di rapidi mutamenti, in un disordine creativo che Clément, nel suo bellissimo “Manifesto del Terzo paesaggio”, paragona all’inconscio umano: “… Profondità dove gli eventi si accumulano e si manifestano in modo, all’apparenza, indeciso.”[2] fino all’instaurarsi di specie stabili, al costituirsi di un equilibrio.

Ecco, questi frammenti di incolto privi di una funzione, improduttivi, noi umani spesso non li capiamo; ci ispirano un senso di disapprovazione, molti vi vedono solo degrado, mancanza di ordine. Un punto di vista che tende semplicemente a svalutare, secondo la logica che “se non serve a me allora è inutile”. E siccome è inutile bisogna trovargli un nuovo scopo.
Ma quell’intrico che respinge noi, e proprio perché ce ne teniamo lontani, attrae la diversità della natura, le piante, gli animali: innumerevoli uccelli possono viverci, i ricci vi si muovono in pace, le volpi, le lepri e miriadi di insetti. Se gli spazi di incolto hanno sviluppo lineare divengono corridoi ecologici.
Dunque chiediamoci se la nostra reazione di disapprovazione ha davvero un senso oppure è solo un nostro limite, una nostra incapacità di riconoscere il valore reale che l’abbandono, il residuo, possiedono. In aree urbane o periurbane sono spazi di natura autentica, quella natura-senza-noi che è così rara. Sono oasi e riserve che in genere non possiamo chiamare oasi, né riserve, perché mancano del riconoscimento ufficiale per essere considerate tali.
Luoghi indifesi.
Sulle aree abbandonate incombe sempre una minaccia: dopo anni, a volte decenni in cui sono rimaste, felicemente, prive della nostra attenzione, qualcuno le guarda e decide di riqualificarle. Magari nel frattempo si sono già riqualificate da sole, diventando fulcri di vita.

Si sono trasformate, guidate dalla mano sapiente della natura, in qualcosa di buono, di importante, di bello, anche se di una bellezza che non tutti sanno cogliere. Soprattutto nelle sue prime fasi, quelle della trasformazione più vivace e “caotica”.
Ma per ottenere facile plauso dai cittadini facendo poca fatica e spendendo poco cosa c’è di meglio che riutilizzare, “valorizzare” un’area naturale abbandonata a sé stessa?
Certo più faticoso sarebbe metter mano a aree industriali ormai fantasma, coperte da cemento, asfalto e capannoni, dove la vegetazione fatica a riprendere piede. Molto costo e fatica, e anche qualche rischio.

E inutile negare che è difficile anche per noi cambiare forme di pensiero che neppure sospettiamo di avere. Ma abbiamo le facoltà mentali per farlo e tutto l’interesse. Possiamo imparare a interrogarci sul valore di un’area abbandonata prima di trasformarla, tenendo conto dei danni che possiamo causare e come evitarli, essere capaci anche di rinunciare. Perché uno spazio che permette alla vita di esprimersi è uno spazio che ci aiuta, che ci serve.
“Per il suo contenuto, per le questioni poste dalla diversità, per la necessità di conservarla – o di favorirne la dinamica – il Terzo paesaggio acquista una dimensione politica.”[3]
È ben arrivata l’ora di riconoscere, di superare i pregiudizi, imparare ad accogliere gli spazi incolti nei nostri schemi culturali, nel nostro quotidiano e nei progetti urbani.
Per le informazioni e le foto delle EX Fosse Tomasi ringraziamo il Comitato UBìC-Riserva: https://www.facebook.com/ubic.riserva
[1] [2] [3] Citazioni dal “Manifesto del Terzo paesaggio” Gilles Clément. Quodlibet
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