Sono molte le erbe che crescono spontaneamente nei prati e nelle siepi e si possono mangiare. Queste sono chiamate “piante alimurgiche”, termine nato nel XVIII secolo (1767,dal trattato De Alimenta Urgentia di Giovanni Targiotti-Tozzetti), che unisce l’idea di alimentazione con quella di urgenza/emergenza, anche se il loro consumo non è necessariamente limitato a situazioni estreme o di carestia: la capacità di riconoscere ed utilizzare le erbe selvatiche è parte della cultura trasmessaci dai nostri avi, legata ad uno stile di vita in cui tutto ciò che veniva messo a disposizione dalla natura era una risorsa da sfruttare.
Proprio come i funghi anche erbe, fiori, germogli e bacche erano importanti nell’alimentazione della popolazione delle campagne. Alcune piante alimurgiche sono note ovunque, perché reperibili in gran parte del paese (es. silene, tarassaco), altre sono tipiche di alcuni luoghi, essendo legate ad ambienti specifici. Negli ultimi anni si è assistito ad un ritorno in auge di questi cibi, tanto che oggi alcune comuni erbe spontanee si possono acquistare sul mercato, vengono organizzati corsi che insegnano a riconoscerle, si stampano libri di ricette a loro dedicate, entrano ormai d’abitudine nei menù primaverili di agriturismi e ristoranti.
Alle erbe spontanee alimentari bisogna riconoscere un valore culturale ed economico, passeggiare a primavera raccogliendole è certamente un piacere, così come cucinare qualcosa che ci si è procacciati personalmente. Infine, sono spesso le uniche piante selvatiche a cui si presta attenzione e che si impara ad osservare, perché sono percepite come utili, dunque si distinguono dalle “erbacce”.
Ma è sempre corretto raccoglierle?
Spesso in queste pagine virtuali abbiamo affermato l’importanza di superare un atteggiamento che potremmo definire “predatorio” nei confronti della natura. Quello che noi sottraiamo all’ambiente senza pensarci troppo, con leggerezza, lo togliamo ad un ecosistema di cui è parte, rendendolo inutilizzabile per altre specie: ad esempio la comune ortica non è buona solo per noi, che ne ricaviamo zuppe e risotti, ma anche nutrimento per alcune specie di farfalle, quali la vanessa dell’ortica. Quando poi la parte che si raccoglie è il bulbo, o la radice, difficilmente la pianta potrà sopravvivere al nostro passaggio.
Particolare è il caso del rusco (in dialetto rustegot), una specie di sottobosco presente sul Montello, il cui utilizzo alimentare è parte della tradizione e che è da anni protetto dalla Direttiva Habitat. Danneggiarlo o raccoglierne delle parti è vietato.
Non va scordato poi il potenziale danno che le persone, camminando fuori dai sentieri, possono arrecare calpestando con poca accortezza i prati o il soffice suolo del bosco. Dunque, raccogliere le alimurgiche o no?
Noi ci sentiamo di consigliare alle persone di astenersi, pur consapevoli che ognuno, giustamente, si regola secondo la propria sensibilità e coscienza. Ricordiamo che le specie protette (a livello regionale o nazionale) vanno sempre rispettate.
Qualche ultimo suggerimento:
- Non diversamente dai funghi possono essere velenose e creare problemi di salute anche gravi, bisogna conoscerle bene. L’attenzione è d’obbligo!
- Anche una pianta mangereccia non va raccolta se cresce in un ambiente inquinato, tenetevi dunque alla larga dalle strade trafficate e dalle coltivazioni delle quali non sapete da quanto tempo è stato effettuato un trattamento fitosanitario e con quali principi.
- Il Montello è suddiviso in molte proprietà private, il fatto che non siano recitate non significa che sono terra di nessuno.
- Ricordiamo che la raccolta a scopo di vendita delle piante alimurgiche è considerata un’attività agricola a tutti gli effetti, ed è soggetta alla legge che norma la raccolta delle piante officinali.
- Nel caso in cui siate ancora convinti di raccoglierle, una parola d’ordine deve accompagnarvi: PARSIMONIA!
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